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“Un’Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana”.
Parole secche, prive di retorica perché già pregne di lucido pathos; non parole al vento, perché dette da colui che rese usuale, quotidiano, normale, il gioioso martirio di stampo squadrista, perché pronunciate da colui che avrebbe combattuto fino all’ultima cartuccia, che avrebbe creduto al Ridotto della Valtellina - le famose Termopili del Fascismo - e avrebbe infine comandato di fatto il suo stesso plotone d’esecuzione.
Questo, signori, è Pavolini e potremmo fermarci qui.
 
 

Potremmo fermarci qui perché l’essenza non necessita di fronzoli, di ragionamenti, di elucubrazioni. Ma l’uomo seduto, distratto, risucchiato nella spirale di un vivacchiar banale cerca spiegazioni, cerca ragionamenti, cerca conferme, quasi a voler esorcizzare in qualche modo la nuda verità che recita così: o si hanno le palle o si è buffoni.
E poiché a nessuno piace ammettere di essere un buffone ecco che la virilità se la cuce addosso, se la costruisce esorcizzando il dramma e la tragedia con ragionamenti cha sembrano limpidi e coinvolgenti e che spiegano il come ed il perché, che anatomizzano la storia togliendole ogni afflato, rendendoci incomprensibile chi invece è quanto mai chiaro, da Attilio Regolo a Pietro Micca, da Giovanni dalle Bande Nere a Che Guevara (ucciso una seconda volta dai suoi che ne han fatto un simbolo di marchandising).
Ed allora, signori, perdiamoci nella ragnatela dei ragionamenti ed andiamo a vedere come si esprime l’uomo-mito o il mito-uomo Alessandro Pavolini che uomo fu dei più eccezionali e mito è in tutto e per tutto. 
E per la sua eccelsa figura e perché “Miuthos” per i nostri antenati significava “discorso del verbo” ossia rappresentava uno dei modelli compiuti, logici e dunque razionali attraverso i quali l’essenza propone se stessa e la via per essere finalmente colta. Mito è, dunque, un modello eterno, incarnato da un tipo originario (l’Archetipo) che segue una strada che già è stata percorsa e che il medesimo tipo dovrà percorrere sempre, nell’ atemporale eterno ritorno.
Mito è tragedia, ovvero annullamento dell’individualità costruita, nel recupero della natura elementare e nel collegamento folgorante e devastante con il Divino.
Alessandro Pavolini è dunque Mito, completamente e senza la necessità di costruzioni teoriche.
È talmente mito che, vuoi per rispetto, vuoi per timor reverenziale, vuoi per vergogna di operare il confronto, vuoi per giustificare accomodamenti e cedimenti interiori, gli stessi sopravvissuti alla tragedia di quegli anni han pensato bene di parlarne poco. Bene han fatto perché la retorica e le esternazioni aderiscono assai meglio a chi non ha raggiunto l’essenza nuda che non a chi ci sovrasta e ci accompagna silente con quell’ironico e tagliente sguardo che altro non è se non la nostra stessa coscienza. Grande parola troppo spesso utilizzata a sproposito…
 

Alessandro Pavolini stupì tutti. Stupì la Firenze bene, i salotti degli intellettuali, il suo amico Galeazzo Ciano, il suo conoscente Indro Montanelli. Li stupì talmente da indurli a vaneggiare che ce ne fossero due. Un Pavolini moderato, letterato, illuminato, indulgente verso i critici del Regime ed un Pavolini sconvolto dal tradimento del 25 luglio; sconvolto a tal punto da cambiar carattere, da divenir brutale, intransigente, selvaggio ed esaltato.
È la mistificazione prima e forse la più importante: è l’operazione di autogiustificazione da transfert psicologico tramite il quale i deboli ed i vili s’innalzano, o meglio evitano di sprofondare, rifiutando il confronto. Non vi furono due Pavolini, la demonizzazione o meglio ancora le giustificazioni psicotiche atte ad esorcizzare quello del secondo corso tradiscono una precisa volontà: attribuire a passione scomposta, a ragione sconvolta, la disposizione ferma e continua ad essere se stessi senza flettere, pagandone qualsiasi costo.
La coscienza borghese (una parola usata a sproposito, dicevamo), questa finta coscienza recita così: esprimi una fede e recita il copione ma non andare mai oltre, questa fede e questa coscienza sono infatti una veste, un fatto estetico, non prenderle sul serio, mai.
Di gente così, quattro secoli fa, si disse che erano “disposti a difendere le loro opinioni fino al rogo escluso…” E probabilmente i suoi contemporanei amici di salotto s’inventarono anch’essi due Giordano Bruno: affinché il suo ricordo non li schiacciasse.
Questi buoni borghesi dovevano - e tuttora devono - credere che solo uno stupido, un rozzo, un ottuso, un selvaggio possa andare incontro al sacrificio, possa non aver il genio di evitare il conflitto, di venir meno alle sue responsabilità, di scegliere la tragedia ripudiando la farsa.
E come accettare che il più illuminato ministro della Cultura, il più liberale (come indole ovviamente) federale di Firenze e forse d’Italia, l’indulgente frequentatore dell’intelligentia antifascista, fratelli Rosselli inclusi, il figlio del più illustre professore di Sanscrito, il miglior conoscitore delle tradizioni scandinave, l’ideatore ed il realizzatore dei Littoriali della Cultura che avrebbero consacrato gente come Fermi, Blasetti e Fanfani, l’uomo che salvava le opere di Visconti dalla censura di Regime, il personaggio forse più intelligente, colto e sensibile del Ventennio dunque, abbia accettato la sfida, abbia fatto fronte alla disfatta, abbia fondato il Partito Combattente e le Brigate Nere, abbia operato una vera e propria rivoluzione culturale, antropologica e sociale e sia andato a morire serenamente e consapevolmente ? Per nulla secondo la morale borghese, per tutto secondo lo spirito nudo, essenziale ed esaltante della Civiltà.
Lo definirono allora esaltato (mentre al contrario esaltava), cioè sprovveduto, folle, posseduto, maniacale e si lavarono le mani del suo sangue. Che non era il loro ma è certamente il nostro.
 

Poeta e scrittore, Pavolini ebbe la vocazione al giornalismo fin dall’età di otto anni (quando produsse autonomamente il periodico bellicista “La Guerra”), al quale fece seguito “Il Buzzecolo”; durante il Fascismo, cui, non appena diciottenne, aveva aderito fin dal 1920, fu il fondatore de “Il Bargello”, poi inviato speciale e combattente in Abissinia,  prima di divenire appunto Ministro della Cultura e direttore de “Il Messaggero”. Scrisse libri e racconti di altissimo livello come “Giro d’Italia”, “Nuovo Baltico”, “Tutto il Danubio”, “Cento metri”, “Il leopardo Dil Dil”, “La Disperata”, “Ritratto d’Angela”.
A Firenze seppe imporsi con buon senso tra lo squadrismo aggressivo e “plebeo” di Tamburini e quello aristocratico, esteta e lievemente classista di Perrone Compagni. Di lui si disse che era un “fascista equilibrato” ed un “protettore delle arti”.  Ideò il Maggio Musicale, la Partita di Calcio in Costume, la Mostra dell’Artigianato al Ponte Vecchio, le Rassegne d’Arte, la Fiera del Libro, la Primavera Fiorentina, il Teatro Sperimentale dei Gruppi Universitari Fascisti e i Littoriali della Cultura.
Da Federale approvò i progetti e determinò la realizzazione dello Stadio Comunale, della nuova Stazione di Santa Maria Novella e dell’Autostrada Firenze-Mare. Contribuì all’allargamento dell’edilizia popolare. Sin dal 1934 fu deputato alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. 
Nel 1939 diviene ministro della cultura e coglie subito l’importanza della Radio e del Cinema. È temuto dai Tedeschi che lo considerano un “moderato” ma è tenuto in grande considerazione da Joseph Gobbels, il plenipotenziario del Terzo Reich che s’intende parecchio sia di propaganda che di uomini.
Nel febbraio del 43, a causa di un cambio della guardia, è rimosso dal dicastero. Al momento del colpo di Stato del 25 e 26 luglio Pavolini ha così tutte le carte in regola per uscire indenne dalla bufera.
Ha alle spalle una tradizione di buon governo e frequentazioni antifasciste che lo garantiscono. Dai fratelli Rosselli, ad Alberto Carocci, Arturo Loria, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti e Jean Luchaire. Ha frequentazioni ebraiche; è il miglior amico del ribelle Ciano. È ricco di famiglia ed ha un passato così illustre, pur non essendo ancora quarantenne, da non necessitare di alcuna ambizione supplementare. I Tedeschi lo considerano un “moderato”; per molto meno centinaia di individui si sono costruiti un passato da “resistenti” ed hanno attraversato indenni il guado.
Indenni fisicamente ma non moralmente.
Pavolini invece passa il Rubicone. “Al mitra ! Alla macchia !” è il suo grido di reazione. Organizza subito con altri camerati la risposta fascista. La notte dell’8 settembre da un binario morto di Koenigsberg parla al popolo italiano insieme a Vittorio Mussolini. Il 14 settembre è a Monaco ad accogliere il Duce liberato da Skorzeny e da Student. Resterà con lui fino all’ultimo e sarà assassinato lo stesso giorno a pochissimi chilometri di distanza.
 

L’uomo di cultura, colui che da sempre ha preteso che azione e pensiero sono inscindibili, dà allora il senso pieno a questo termine che con l’andare del tempo e soprattutto del decadimento, noi abbiamo svalutato e svilito ma che significa invece adesione piena di ogni atto ad un modello ideale. Kultur in tedesco non a caso vuol dire Civiltà.
Pavolini incarna il binomio inscindibile della retorica ventennale “libro e moschetto” e si fa, o meglio si conferma pienamente e senza esitazioni, “poeta armato”.
Il Duce lo fa segretario del nascente Partito Fascista Repubblicano, ovvero lo innalza alla seconda carica della Repubblica Sociale e gli dà il compito di organizzare e di rifondare al contempo il Partito.
Deve farlo in una coabitazione burrascosa con i vertici dell’Esercito, con la corrente legalista e reazionaria, dovendo fare ogni giorno i conti con il controllo sospettoso dello Stato Maggiore Germanico. Deve farlo partendo da zero. E Pavolini non ha dubbi “Camerati si ricomincia. Siamo gli stessi del 21”. 
Azzerare significa andare all’essenziale.
Ovvero rifiutare la tessera del Partito a chi non sia disposto a sacrificarsi quotidianamente; ragion per cui il nuovo Segretario ottiene che sia concesso  ai non iscritti di ricoprire incarichi statali e pubblici perché l’iscrizione non deve essere una formalità burocratica ma la firma cosciente della propria condanna a morte. Idealista si ma realista come nessun altro egli difatti non si fa illusioni sull’esito della guerra né sulla sorte che è riservata a chi non piegherà la testa.
Il suo primo atto, simbolico ma concreto, è quello di militarizzare la sede romana del Partito mettendo alla sua guardia i giovani volontari di Bir el Gobi, tra i quali sceglierà il suo attendente, Enzo De Benedictis.
La sua rifondazione è totale e non lascia adito ad equivoci.
Il Fascismo repubblicano è irredentista, nasce, cioè, sul mito risorgimentale ma persegue un nazionalismo universalista a forte impronta europeista.
Il Fascismo repubblicano intende combattere tutte le internazionali del potere.Quelle economiche, finanziarie, religiose e politiche. Per farlo si deve partire dal centro, ovvero dalla formazione di un uomo che sia soggetto rivoluzionario. Lo stato pavoliniano intende così plasmare le giovani generazioni, renderle coscienti delle proprie potenzialità, educarle ad uno scopo, cancellando tutti i difetti ereditati dall’Italietta liberale e da una certa mentalità cattolica antinazionale e clericale.
Per modellarsi serve un mito storico ed etico. Ed ecco che il perno intorno al quale operare viene offerto dall’epopea rivoluzionaria dello squadrismo.
Sulla base dello squadrismo si effettuerà la Seconda Rivoluzione e si affermerà la Terza Roma.
Per questo la “Rifondazione” che si compirà sul “Mito della Marcia” si instaurerà sul rinnovamento giovanile, sull’istituzione di comitati d’azione e di neo-triumvirati. Il pragmatismo antiborghese ne sarà il modus pensandi et operandi, l’humus nel quale formare l’aristocrazia del pensiero/azione azione/pensiero che garantirà l’ “Unità ideale e operante delle generazioni passate, presenti e future”. 
Da queste premesse emerge naturale la subordinazione del privato al pubblico con tanto di proprietà statale dei beni di produzione e di socializzazione intesa più che a garantire l’equilibrio del Ventennio tra Capitale e Lavoro ad imporre la prevalenza etica ed economica del secondo sul primo.
Nella tendenza ad accorciare le distanze tra proletariato e piccola borghesia, Pavolini non è mosso da fascinazioni proletarie bensì dalla consapevolezza che partecipazione e produzione sono le due condizioni necessarie per portare un popolo a divenire padrone di sé.
Il concetto organico di popolo assume allora centralità, i termini fondanti della Rifondazione sono Nazione e Popolo, il concetto della loro sintesi è Rivoluzione di Popolo.
 

La cultura per Pavolini è azione oltre che pensiero. I richiami ideologici non saranno dunque lettera morta ma azione quotidiana. Per Pavolini non si deve prima vincere e poi mutare perché la mutazione è nel combattimento. Egli crede nella rivoluzione continua.
Tanto per cominciare introduce l’autocritica e la democrazia diretta nell’apparato del Partito. Le cariche diventano elettive, le assemblee hanno un ruolo nuovo in un Partito totalitario che è sì centralizzato ma federale e molto attento al radicamento territoriale.
Un binomio si pone a garanzia dell’ortodossia spirituale nell’alveo della rivoluzione continua: è il binomio composto dagli antichi squadristi accorsi all’appello e dai giovanissimi volontari di Bir El Gobi, i nuovi squadristi.
Il Partito deve impegnarsi in opere di beneficenza, in assistenza a chi soffre, ai bisognosi, ai senza tetto, deve sostituire lo Stato, o meglio i servizi dello Stato, laddove le comunicazioni belliche lo vedono latitare, ma non deve in alcun caso compiere azioni di polizia.
La solidarietà, la generosità e l’impersonalità nel servizio sono le parole d’ordine dell’azione pavoliniana. Il PFR giungerà così ad esprimere leggi giuste e rivoluzionarie quali l’abolizione delle società anonime e azionarie e a delegittimare giuridicamente il concetto di padrone-proprietario.
Nel Fascismo repubblicano trovano piena espressione le idee socialrivoluzionarie di Bianchi, Sorel e Corridoni, ed anche la tradizione storico-ideologica di Garibaldi e Pisacane.
Il Partito in guerra deve essere partito armato, deve essere Milizia rivoluzionata. Così dopo un lungo insistere, nel giugno del ’44 Pavolini otterrà la costituzione delle Brigate Nere.
Alle quali non si aderisce in quanto militanti del PFR ma, da militanti del PFR, per aderirvi, si deve fare domanda volontaria.
 

“Chi siete io non lo so; chi siamo ve lo dirò: siam le Brigate Nere e abbiam la forza di spezzarvi il cuor !”
Al di là della sinistra iconografia che ne han fatto gli avversari di fuori (i partigiani) e soprattutto gli avversari di dentro (quelli del “fino al rogo escluso”) le Brigate Nere rappresentano un fenomeno autenticamente rivoluzionario e, tanto per non guastare, di nutrito consenso.
Quando la proposta pavoliniana di armare il Partito viene accolta, nell’estate del 44, gli esiti bellici sono evidenti, la Capitale è perduta, del resto vergognosamente perché non si è difesa. L’esercito dell’Onore non ha più lo stesso entusiasmo di pochi mesi prima, le truppe non hanno il morale alle stelle. Il decreto mussoliniano consente non solo l’istituzione delle Brigate Nere, assolutamente volontarie, ma anche l’incorporo nei loro effettivi di chi, già militando nell’esercito, ne richieda l’assegnamento.
Il successo è strepitoso al punto che lo Stato Maggiore deve pretendere dal Duce una sospensione del provvedimento.
Eppure le Brigate Nere non offrono granché alle ambizioni. Nelle Brigate Nere sono aboliti i gradi e i fronzoli, vengono accettate soltanto funzioni di comando che sono limitate nel tempo ed intercambiabili secondo il più autentico socialismo di trincea. Le Brigate Nere non hanno la copertura istituzionale dell’Esercito ma sono soggette alla rappresaglia dei futuri tribunali oltre che a quella partigiana. Quando si milita in esse si fa proprio l’adagio del Cantate dei Legionari “il mondo sa che la camicia nera s’indossa per combattere e morir”. Nelle Brigate Nere non vi è futuro né carriera: eppure tra le loro fila si accorre numerosi anche dalle formazioni dell’esercito dal quale convergono soldati, ufficiali e persino numerosi colonnelli che rinunciano ai gradi per una scelta spartiata d’impersonalità guerriera. 
Le Brigate Nere sono l’esempio evidente, corporeo, dello spirito e dell’anima della rivoluzione, cioè della cultura del pensiero/azione, dell’essenzialità e dell’assialità anticoromana. 
 

Le Brigate Nere non sono state inventate da un atto notarile ma sono il frutto di un lungo e cosciente sacrificio. Caduta Roma, Pavolini si ripromette di non concedere altre rese vergognose ed organizza la guerriglia fascista. La propaganda ufficiale ci nasconde le azioni “partigiane” compiute dai fascisti dietro le linee da formazioni ideate da Pavolini, quali la “Onore e Combattimento”. Di azioni di guerriglia e sabotaggio, per le quali numerosi saranno i fucilati, ne risultano documentate diciotto, tra le quali una vera e propria insurrezione popolare contro la coscrizione nelle fila badogliane nella zona di Catania, la cosiddetta rivolta dei “Non si parte”. Pavolini organizza inoltre i Franchi Tiratori che agiranno principalmente a Firenze e a Forlì ma che s’impegneranno ancora in una decina di città italiane.
Emblematica è la difesa di Firenze, che il generale americano Alexander disse essere la miglior città italiana perché “lì - sottolineò - ci accolsero sparando dai tetti”.
D’altronde quando i Tedeschi avevano fatto saltare i ponti e rimaneva ancora percorribile un solo passaggio sull’Arno cercarono di trarre in salvo i tiratori più vicini ma costoro si rifiutarono dicendo che il loro compito era quello di combattere fino alla morte.
A Firenze agirono un centinaio di squadre di tre tiratori, molti dei quali giovanissimi, cui si accompagnava la distribuzione della propaganda clandestina tramite il foglio “Ventitre Marzo” il tutto nel rispetto della tecnica di collegamento azione-pensiero che era prettamente pavoliniana.
Le Brigate Nere nascono, dunque, nel nome del sacrificio e ottengono con l’esempio di essere impegnate in prima linea come nelle operazioni di controguerriglia. Pavolini stesso vi combatte da volontario in Piemonte ed in Val d’Ossola venendo ferito in prima linea.
Le stesse Ausiliarie delle Brigate Nere a differenza degli altri corpi ottengono il porto d’armi e possono combattere.
Tutto l’operato di Pavolini nei dieci mesi che vanno dalla costituzione delle Brigate Nere alla sua morte, è scandito da rastrellamenti, riunioni di governo, comizi ed ispezioni.
Egli arringa le Brigate Nere, gli iscritti al PFR ed il popolo, parlando loro di un Nuovo Ordine Europeo che deve essere antiplutocratico, poliarchico, etniarchico ed antiborghese.
 

Ed ecco come le Brigate Nere furono dipinte da Pavolini:
“Le Brigate Nere sono un esercito senza galloni essendo noi squadristi persuasi che un comandante è tale se comanda e gli si ubbidisce e che altrimenti non c’è grado che tenga. L’unico gallone è l’esempio… 
Le Brigate Nere non sono il Partito che va verso il popolo, sono una milizia di Partito che è popolo, una milizia operaia e rivoluzionaria, di meccanici, di artigiani, di braccianti, di piccoli impiegati, in lotta mortale contro le plutocrazie alleate dei bolscevichi e contro i plutocrati sovvenzionatori di banditi… 
Le Brigate Nere anelano al combattimento contro il nemico esterno ma sanno che in una guerra come l’attuale, guerra di religione, non c’è vera differenza fra nemico di fuori e di dentro. Non è lecito chiamare fratricida la lotta contro chi attenta alla vita e all’onore della Patria. Non è fratello chi rinnega la Madre e le spara addosso…
Le Brigate Nere in che periodo sono apparse ? Quando altri si squagliavano e noi ci adunammo. Altri dimettevano il distintivo e noi ci rimettemmo la camicia nera. Altri cercavano di farsi dimenticare e noi ci ricordammo. Ci ricordammo delle parole date, delle fedi promesse, dei compagni perduti. Noi ci ricorderemo sempre…
Le Brigate Nere sono una famiglia, questa famiglia ha un antenato, lo Squadrismo, un blasone: il sacrificio di sangue, una genitrice: l’Idea fascista, una guida, un esempio, una dedizione assoluta ed un affetto supremo: MUSSOLINI”.
 

Le Brigate Nere furono in linea a Livorno, Pisa, Buti, Pontedera e misero in fuga, in Garfagnana, gli Americani della Buffalo.
Dopo il 25 aprile Pavolini tentò con ogni sforzo di concentrare gli effettivi in Val Tellina per difendere l’Ultimo Ridotto ma le comunicazioni erano saltate, le strade intasate ed il progetto di fatto non riuscì. In qualche maniera l’estrema resistenza, l’estremo sacrificio, furono compiuti dall’insurrezione fascista delle Brigate Nere di Torino agli ordini del Federale Solaro.
Pavolini, che combatté fino all’ultimo venne fucilato a Dongo, sul Lago di Como e comandò di fatto il plotone d’esecuzione. Il racconto forse romanzato degli stessi partigiani che di lui avevano un’immagine di tutto rilievo ci dice persino che dopo la prima raffica si rialzasse e tendesse il braccio nel saluto romano prima di spirare. 
 

Pavolini uomo-mito appartiene alla storia ma non appartiene al passato.
Innanzitutto perché non fa parte di un solo tempo chi sia essenziale e coerente, gioioso e cosciente nel sacrificio. Non è mai superato chi abbia compiuto una rivoluzione sobria e profonda che ha messo in imbarazzo più gli esteti in camicia nera, i difensori dell’onore a condizione, i moralisti che vegetano nel carrierismo e nel capitalismo, che non i suoi diretti avversari d’arme.
In questo e per questo, Pavolini è ciò che si definisce un archetipo incarnato, lo stesso archetipo di Catilina, di Giovanna d’Arco o di Ernesto Guevara detto il Che.
Rispetto ai quali, tutti, che insieme furono fustigatori degli uomini a metà, che smascherarono gli apostati, gli accomodanti e gli arrivisti, egli ha un di più: uomo di lettere, di cultura, di prestigiose frequentazioni, è la prova di come l’intransigenza verso di sé e l’intelligenza realistica non siano tra loro contrastanti se non nella mistificazione che ci offre l’ideologia borghese.
Ma l’attualità di Pavolini va anche oltre quest’atemporalità della figura.
Nel mondo che oggi viene definito “globale” le misure di partecipazione, di democrazia diretta, di autonomia piena, sociale e guerriera che son proprie del modello pavoliniano si dimostrano antesignane rispetto ad una tendenza di autonomia, di localizzazione e di superamento del capitalismo finanziario e speculativo, in un modello attivo imperniato sulla logica del matrimonio luogo-lavoro e sul recupero dell’essenziale e del solidale.
La concezione pavoliniana di Nuovo Ordine Europeo, la sua denuncia nei confronti di tutte le internazionali, finanziarie, politiche e religiose, preannuncia una visione europea, imperiale che, proprio in quanto si fonda sulle autonomie partecipative locali, prospetta un’alternativa ghibellina alla macina mondialista.
Pavolini è dunque oggi, come per sua volontà, passato, presente e futuro.
Pavolini lo è per chi sappia coglierne l’esempio ed il monito, l’insegnamento e lo sprone, per chi sappia rinunciare ai fronzoli, ai galloni, al narcisismo, al vacuo amor di sé, alla carriera, alla riuscita sociale, ai mille e mille alibi che si trovano sempre per disertare le responsabilità onerose.
Per chi, in altre parole, sappia essere esempio e, soprattutto, sappia pagarne il costo.
 
 

“Un’Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana”.
Parole secche, prive di retorica perché già pregne di lucido pathos; non parole al vento, perché dette da colui che rese usuale, quotidiano, normale, il gioioso martirio di stampo squadrista, perché pronunciate da colui che avrebbe combattuto fino all’ultima cartuccia, che avrebbe creduto al Ridotto della Valtellina - le famose Termopili del Fascismo - e avrebbe infine comandato di fatto il suo stesso plotone d’esecuzione.
Questo, signori, è Pavolini e fermiamoci qui. Chi ha orecchie per udire ascolti, chi ha vene nei polsi, vibri, chi ha cuore e intelletto apprenda e metta in atto.